Nelle “farm” dove il caffè sostenibile resiste, grazie a donne e giovani

IBANDA (UGANDA) - Ogni nostra giornata nasce da una rossa ciliegia che racchiude molto più di un seme: per noi è la base del rito, ma in Africa è garanzia di vita, presente e futuro, educazione. Un'ipoteca sul domani che oggi è diventata fragilissima e ha bisogno di cure inclusive e sostenibili. Vi siete mai chiesti, quando preparate la moka al mattino, oppure mentre consumate un espresso al bar, cosa accade alle origini del nostro gesto quotidiano, quel caffè che ogni santo giorno ci beviamo? Chi c'è dietro e come inizia tutto? Ed è possibile coltivarlo in maniera sostenibile, sia sociale che ambientale?

Per capirlo abbiamo iniziato un viaggio su rosse strade argillose in una valle di infinite piantagioni di banane dove all'orizzonte si intravedono solo verdi colline e gigantesche corna di vacche ankole. In Uganda il caffè è sinonimo di speranza: qui non lo beve quasi nessuno, ma un terzo della popolazione - in un Paese dove ogni famiglia ha in media oltre cinque figli - è dipendente dall'economia del caffè. Non è il grande Brasile o il Vietnam, i territori da dove arrivano la maggior parte dell'Arabica e della Robusta del mondo, ma è un luogo dove le comunità di contadini, spesso donne, stanno crescendo e provano a vivere, sostanzialmente, grazie alla vendita del chicco marrone. A sei ore da Kampala, poco distante dalle rive del Lago Mburo dove svettano le giraffe e gli ippopotami nuotano placidi sorvegliati dalle aquile, ci sono due realtà ricche di coltivazioni: Ibanda e Bushenyi. Qui ogni giorno, intorno alle quattro del mattino, spesso ben prima di quando da noi iniziamo a caricare la moka, migliaia di persone iniziano il viaggio a piedi o in moto verso le colline. Nelle farm, a differenza delle grandi monocolture sudamericane, le piante di caffè crescono all'ombra dei banani in terreni ricchi di biodiversità: alberi di jackfruit, pomodorini, peperoncini, piante di mango e papaya, giardini dove saltano cavallette multicolore in contesti coltivati con poco fertilizzanti e molte sostanze organiche.

Quando arriviamo, a settembre, si sta aspettando il secondo ciclo di raccolta: la stagione va da aprile ad agosto e le "ciliegie", così chiamano il frutto del caffè, sono ancora verdi, solo qualcuna comincia a tingersi di rosso. Lì dentro c'è il seme: una volta estratto, attraverserà un'infinità di processi - la raccolta, la pulizia, il controllo delle dimensioni e degli scarti, l'osservazione chicco per chicco fatta da donne pagate 5 dollari al giorno - prima di diventare quel prodotto che in Italia tostiamo per trasformarlo nel caffè che conosciamo e dovremmo imparare a rispettare di più, visto le minacce che incombono.
Il caffè infatti - e vale la pena ricordarlo oggi, Giornata mondiale del caffè - sta attraversando una crisi che per noi consumatori si traduce in aumento dei prezzi, ma che quaggiù potrebbe facilmente incidere sul futuro scolastico di un bambino.

La crisi del caffè è dovuta da più fattori. In primis c'è il cambiamento climatico: piogge estremamente intense o improvvisamente assenti, gelate rapide e temperature che cambiano stressano le piante.Anche qui in Uganda, quando chiediamo alle coltivatrici, sanno bene che non si tratta di un "con job", una "truffa" come l'ha definita Donald Trump, ma di qualcosa di molto reale dato che le piogge "non sono più come prima" ripetono tutti. Lo sanno ancora meglio nel Minas Gerais in Brasile, luogo principale di provenienza del caffè: quando ci sono gelate o siccità estreme la produzione cala e i prezzi si impennano. Dal 2023 ad oggi i costi sono quasi raddoppiati.
Le ripercussioni di quanto avviene in Paesi come Brasile, Vietnam o India, si espandono poi su tutto un mercato dove - tra speculazioni finanziarie e tensioni geopolitiche (come quelle che riguardano il canale di Suez e dunque i trasporti) - tutto è appeso a un filo estremamente delicato. Tra dazi e incertezze, negli ultimi quattro anni il mondo del caffè ha vissuto infatti un momento drammatico: gli stock di magazzino sono ridotti al minimo, le produzioni sono imprevedibili e le tazzine sono aumentate di prezzo, sfiorando i due euro in Italia. Una incertezza che si ripercuote, dove il caffè cresce, in crisi per le famiglie: non c'è da sorprendersi se le nuove generazioni, i giovani, non vogliono ereditare il lavoro nelle fattorie, perché non è poi né così sicuro nè redditizio.

All'ombra di alberi d'acacia, seduto su una sedia di legno, Mario Bruscino controlla il telefono.Sta osservando le quotazioni del caffè per capire quando è il momento di comprare. Di lavoro, oltre che vice presidente del Comitato italiano del Caffè, è il green coffee purchasing manager dell'azienda napoletana Caffè Borbone."Sono anni di grande incertezza, è un mondo affascinante ma molto complesso e delicato quello del caffè - dice - ed è necessario guardare sempre avanti". L'idea di guardare avanti è quella che ha spinto Caffè Borbone e Ofi, Olam Food Ingredients, fornitore di ingredienti che opera in tutto il mondo, ad unire le forze per dar vita a un progetto che possa aiutare tutti.
Lo hanno chiamato "Mwanyi", che significa proprio "caffè", ed è incentrato su donne e giovani dell'Uganda. Proteggere loro, significa anche proteggere il futuro dei chicchi. Dall'Uganda arrivano infatti ogni anno sul mercato 6 milioni di sacchi di caffè, l'85% è Robusta e il caffè qui offre sussistenza a 1,7 milioni di famiglie (con sette membri per famiglia) e conta già una forza lavoro di 12.000 dipendenti e circa il 40% di donne impiegate nel settore.

Aziende italiane come Borbone, da anni, hanno scelto di puntare sul prodotto ugandese perché tra clima, suolo e corpo, offre ai torrefattori la miscela perfetta. Nella catena sul territorio è Ofi ad occuparsi dell'acquisto del caffè dai contadini: lo porterà poi nella sua fabbrica dove viene pulito e lavorato fino a renderlo pronto per l'esportazione. Lontano dalle aziende però, sono i coltivatori a sperimentare i problemi sul campo: a Ibanda e Bushenyi raccontano come aumentare la produzione si traduce in miglioramento della vita. In Uganda infatti, per esempio, ci sono due raccolti l'anno, ma nei momenti fermi le persone non hanno entrate: hanno bisogno di più scellini per comprare carta e penna ai figli, per spedire a studiare i grandi o comprarsi una casa. Aumentare la produzione, per tutti - aziende comprese - è dunque un'idea fissa su cui lavorare a lungo termine, ma per farlo è necessario investire in sostenibilità sociale ed ambientale.

Così è nato Mwanyi nel 2022, un progetto di cinque anni che - se avrà successo - potrebbe essere replicato in altre zone dell'Africa. Diffuso anche via radio, così che i giovani africani potessero essere informati, il progetto mira a sostenere i coltivatori in modo pratico: sono stati coinvolti 1000 "farmer" del caffè di cui oltre il 70% erano donne. Queste donne conoscono a memoria la terra, ma non hanno idea di come aumentare una produzione che, vista la domanda in crescita, è necessaria: solo in Italia ci sono 1200 torrefazioni che attendono il caffè - la seconda commodities più scambiata al mondo - da poter lavorare. Così il progetto ha deciso di dare loro la formazione necessaria: oltre a kit, vengono insegnate le pratiche sul campo e formati giovani agronomi, che imparano a capire quando potare, che fertilizzanti o elementi naturali usare, quando irrigare (laddove si può) o meno, se sistemare pannelli fotovoltaici per sfruttare il sole e tutti quei segreti per ottenere una miglior produzione. Oltre 20 giovani agronomi, che poi diventeranno 36 e forniranno supporto a 2.800 coltivatori, sono stati formati con questo progetto.
Bosco, 34 anni, è uno di loro: "Ero fermo, non avevo alcun lavoro: poi è arrivata questa opportunità e ora sto imparando un mestiere che aiuta anche altre persone. Grazie" dice sottovoce mentre indossa una gigantesca tuta da lavoro verde. Parallelamente donne e giovani hanno poi potuto creare vivai di caffè con oltre 50mila piantine e aperto, grazie al sostegno di Borbone e Ofi, anche piccoli negozi dove si vendono fertilizzanti organici e altri prodotti per coltivare. Le buone pratiche sostenibili, come sistemi di irrigazione che sfruttano la pendenza e combattono l'erosione vengono diffuse e in futuro si spera di poter formare i contadini anche su ulteriori sistemi per monitorare le emissioni di CO2.

Dopo averci accolto con frenetiche e gioiose danze locali un gruppo di donne che nonostante le difficoltà non smette mai di sorridere ci racconta quello che però, forse, è la chiave di una nuova sostenibilità per chi lavora il caffè. Sono tutte coltivatrici e hanno un sogno: avere vite migliori. Ci stanno riuscendo grazie a un altra parte del progetto: l'educazione finanziaria e il microcredito. Con oltre 600 membri in 20 diversi gruppi le varie comunità che lavorano il caffè tramite Mwanyi hanno dato vita a progetti chiamati VSLA (Village Savings and Loan Associations).
In sostanza, i membri uniscono le forze: ognuno, per quel che può, versa una quota di quanto guadagnato col caffè in una piccola cassa sigillata da tre lucchetti che possono essere aperti solo in presenza dei tre custodi. I soldi contribuiscono a creare un fondo con cui ottenere poi finanziamenti, a bassi interessi, dalle banche locali e, tramite sistemi di ripartizione ben definiti, ogni membro ha accesso a una cifra di credito necessaria per poter dare vita ai suoi bisogni. Un sistema fondamentale per diversificare: nei mesi in cui non si lavora al caffè è difficile guadagnare qualcosa. Così, strette spalla a spalla in una tenda, mentre fuori diluvia, una dopo l'altra le coltivatrici si avvicinano per raccontare come prendono forma i loro sogni.
Clepheus Kutzarwagye è entusiasta: grazie al microcredito ha ottenuto un finanziamento per comprarsi un altro maiale. "Sono nati sei piccoli maialini e ho cominciato da lì a venderli. Ora ho maiali e presto comprerò anche le capre". Anche Edith Tumuhirlne, 57 anni e diversi nipoti, ha investito: punta su una piantagione di "matoke", le banane, e alcune capre. Altre, come Faustes Natykunda, quattro figli, sono riuscite ad aprire piccoli banchi di ortofrutta con cui aiutare i figli a crescere. Altre ancora spiegano invece di essersi comprate fertilizzanti naturali per migliorare il proprio raccolto, oppure di aver avuto finalmente i soldi per mettere i vetri alle finestre di casa.
"Gli agricoltori coinvolti nel sistema hanno sviluppato un senso di responsabilità finanziaria che consente loro di diventare autonomi: alcuni sono riusciti a ristrutturare le proprie abitazioni, altri possono ora pagare puntualmente le tasse scolastiche e acquistare materiale didattico per i figli. Noi stessi dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità nei confronti delle persone che lavorano all'inizio della filiera" sostiene l'ad di Borbone, Marco Schiavon.
Unite contro l’incertezza del climaSe è dal sudore delle loro fatiche che arriva a noi il caffè con cui iniziamo ogni nostra giornata, questo progetto in qualche modo permette loro di migliorare l'inizio di ogni nuova alba in Uganda. Non solo: aiuta anche i più giovani a capire che nel mondo del caffè c'è un futuro e a non abbandonare i campi. Alcune delle mamme che si avvicinano a parlare hanno appena 30 anni e già tre figli: spiegano che con il microcredito pensano di aumentare la produzione del caffè e, tramite le nuove pratiche imparate dagli agronomi locali, di migliorare la qualità. Così potranno venderne di più. Raccolti che un domani - se come intendono fare Borbone e Ofi si riuscirà ad implementare l'agricoltura rigenerativa - si spera saranno ancor più sostenibili anche dal punto di vista ambientale.
Sebbene l'Africa rappresenti solo il 4% delle emissioni climalteranti del Pianeta, anche questo continente intende infatti fare la sua parte - puntando su rinnovabili e stop alla deforestazione - per emettere di meno e contribuire alla lotta al riscaldamento globale. Ma l'accelerazione della crisi del clima è tale che sarà difficile prevedere il futuro, anche del mondo del caffè, in questo angolo d'Africa dal verde lussureggiante. Quello che serve è aumentare la consapevolezza e il rispetto per la fragilità di questa pianta, così come aiutare chi la coltiva e ci permette ogni giorno di godere del nostro rito. "Non è solo una questione del futuro - chiosano le donne del progetto Mwanyi - per noi il caffè significa il presente".
La Repubblica